In agguato altri aumenti dell’Iva? Come far sviluppare l’economia... soffocandola

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Alfredo Piccaluga, dottore commercialista.
A. Piccaluga

By A. Piccaluga

Mon. 14. November 2016

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Oramai l’iva è un’imposta la cui presenza si percepisce direttamente o indirettamente in ogni professione. Anche un odontoiatra, quando acquista protesi da un intermediario anziché da un odontotecnico, vede assoggettati ad iva i propri acquisti. E all’iva soggiace anche tutta una serie di altri materiali, come il “cemento osseo” ad esempio, utilizzati nella chirurgia artoplastica (Risoluzione nr. 45 del 12 marzo 2007), le consulenze medico legali finalizzate al riconoscimento di una pensione di invalidità, le prestazioni in qualità di consulenti tecnici, quelle rese da chiropratici, e aventi natura estetica, di ricovero etc.

Più in generale, oramai tutte le prestazioni che non siano espressamente mirate a tutelare, mantenere o ristabilire la salute debbono soggiacere a questo poco amato balzello e perdono la qualifica di operazioni esenti ex articolo 10 del DPR n. 633/72. Non ci si può quindi esimere dal guardare con attenzioni ai continui rimaneggiamenti all’imposta effettuati in questi anni. Vuoi anche solo per il fatto che ad ogni aumento, corrisponde una riduzione della disponibilità di spesa dei clienti.

Molti ricordano ancora, non senza un certo disappunto, la manovra fiscale del 15 agosto 2011 contenuta nel DL 13 agosto 2011 n. 138, poi pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 17/09/2011, con la quale , dopo anni di sostanziale quiete, veniva stabilito l'aumento dell'aliquota ordinaria dell'Iva dal 20%, sino ad allora applicato, al 21%. L’impatto emotivo in un momento di piena crisi poi fu forte. Peraltro, colmo di improvvisazione normativa, il cambiamento diventava operativo a partire dal 17 settembre 2011.

Non dall’anno successivo quindi, come sarebbe parso ovvio, e neppure dalla liquidazione iva successiva (sarebbe bastato attendere un paio di settimane), ma da un giorno all’altro. Naturali quindi dubbi e disagi. Professionisti che avevano proposto parcelle indicando pochi giorni prima un’aliquota del 20%, a norma di legge, si trovavano ora con preventivi sfalsati e clienti ovviamente polemici. Merci in viaggio, contratti di portata pluriennale, importazioni, intermediari etc, per tutti si profilava l’esigenza di capire come affrontare il momento di transito in modo così repentino e raffazzonato. I giornali di categoria partorirono al volo decine di inserti speciali e centinaia di esempi, essendo per l’appunto molteplici le variabili generate. Con il risultato che per la massa dei contribuenti si produssero inevitabilmente errori contabili e tributari. Oltre ai già citati disagi pratici.

Ma lo scenario ipotizzato nel 2011 era in realtà di portata ben più vasta in quanto già si paventava che l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto sarebbe continuato in modo progressivo…ancorché redistribuito in più anni. Fu così che nel 2013 l’aliquota aumentò nuovamente, sino a portarsi all’attuale 22%. Anche in quel caso fino all’ultimo era parso che la modifica non entrasse in vigore, quando, a sorpresa, l’Agenzia delle Entrate ne dette invece la notizia con comunicato stampa del 30 settembre 2013. Decorrenza? Il giorno dopo. Nuovamente non si attese l’inizio dell’anno tributario, cosa che avrebbe garantito l’uniformità dei conteggi, pretendendo invece sin dal giorno successivo, ossia dal 1 ottobre 2013, l’applicazione di nuovi valori. Memore dei pastrocchi generati in precedenza, l’esecutivo decise se non altro, di rispettare il periodo di liquidazione. E giù nuovi fiumi di inchiostro delle riviste specialistiche per spiegare oramai tardivamente come affrontare la modifica del balzello.

Ora i contribuenti si sono abituati alle percentuali vigenti, nella misura in cui ci si possa abituare ad un aumento coattivo dei prezzi almeno, ma nuovamente dimenticano che la norma del 2011 prevedeva in realtà un aumento progressivo. E questo vale per tutti, anche per i professionisti del settore.
Colti da una specie di “amnesia dissociativa” generatasi come meccanismo di difesa verso un evento noto ma che si rifiuta sistematicamente, sembriamo dimenticarci quanto preannunciato ormai già anni or sono. Venne infatti anticipato che le aliquote, oggi del 22% quella ordinaria e del 10% quella agevolata, sarebbero aumentate rispettivamente, al 24% e al 12% entro il 2016; al 25% e al 13% nel 2017 e, infine, al 25,5% nel 2018. Ai vertici europei.

Di finanziaria in finanziaria gli aumenti si rimandano, e così si è fatto anche quest’anno millantando improbabili coperture. Ma la norma non è stata ritoccata per cui si rischia, a partire dal 2018, un’impennata spropositata delle aliquote. Pagare il 25% di iva per un servizio, significa che sostanzialmente un quarto di quanto si spende viene immediatamente eroso dal fisco, e sul resto si applicherà poi l’ulteriore tassazione ordinaria. Un qualcosa di ingiustificabile, che fa violenza ai più elementari testi economici. Innanzi tutto poiché le entrate tributarie sono caratterizzate da un forte squilibrio tra imposte dirette e indirette: le indirette, in particolare l’iva, la fanno da padrona. Con buona pace di ogni criterio meritocratico e della paventata indicizzazione al reddito degli aumenti tributari.
Insomma… anziché far pagare di più chi guadagna di più, gli aumenti colpiscono a pioggia i contribuenti senza riguardo per la possibilità di spesa. In secondo luogo, quanto meno su basi teoriche, questo aumento produrrebbe un effetto regressivo sui consumi come conseguenza di un inasprimento indifferenziato dell’imposizione, con aggravio anche sulle importazioni di beni e servizi.

Ma allora, cosa porta legislatore ed esecutivo ad iniziative così lesive per la nostra economia? Null’altro che la (discutibile) esigenza di rispettare le attese di bilancio. Lo Stato si è infatti impegnato con Bruxelles al rispetto di determinate previsioni di crescita. Per dare maggiore forza a queste promesse di risultato, ha proposto delle c.d. clausole di salvaguardia, ossia misure di “riserva” da rendere immediatamente operative qualora le previsioni di crescita e le conseguenti entrate fiscali non si rivelassero fondate, che servono a garantire la stabilità del bilancio e a renderci credibili con i partner europei.

In estrema sintesi: all’Unione Europea vengono promessi risultati avendo cura di dettagliare le modalità con le quali verranno raggiunti e proponendo al contempo delle manovre di riserva. Vedasi in particolare l’aumento dell’iva, da rendere immediatamente operative a salvaguardia degli impegni presi qualora ci si renda conto che il bilancio di Stato sia ancora lontano dal mostrare le entrate attese. In questo modo permane il rischio di creare un effetto domino sull’intera società, rendendo necessarie ulteriori misure d’emergenza per sopperire ai danni economici e tributari generati da quelle precedenti. Difficile immaginare di poter sviluppare l’economia, soffocandola.

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